Il ponte oltre l’orizzonte

Troppo spesso, quando sento parlare di “trasformazione digitale” mi sembra che si stia parlando invece di una nuova informatizzazione dei sistemi: una nuova corsa alle tecnologie (cloud, robotica, intelligenza artificiale, e così via…)

Tra gli anni ’80 e ’90 c’è stato un forte impulso a portare le tecnologie informatiche nelle aziende. Questa è informatizzazione.

In seguito le aziende hanno cercato di smaterializzare i documenti e i processi, cercando le strategie migliori per sfruttare al massimo le tecnologie emergenti. Questa è digitalizzazione.

Più recentemente invece si è iniziato a parlare di trasformazione digitale in cui le persone sono tornate al centro con un occhio di riguardo al concetto di esperienza.

Il concetto di esperienza è fondamentale. Non bisogna pensarlo in termini ricreativi (“è stata una bella esperienza”), quindi rivolto solo al cliente finale. Ma essenzialmente in termini strategici (“esperienza nell’uso”), in quanto permette di raggiungere più agevolmente gli obiettivi.

Progettare l’interfaccia di un sistema in modo che sia più ergonomica (ossia con una esperienza d’uso migliore) permette all’utente un più semplice ed immediato utilizzo e quindi maggiore facilità nello svolgimento dei suoi compiti.

Il concetto errato di trasformazione digitale si concentra sulla tecnologia più di quanto dovrebbe, invece che concentrarsi sul cosa, come e perché il cliente vuole svolgere un determinato compito.

Quando si riesce a fare questo salto mentale si apre un nuovo modo di concepire i processi dell’organizzazione.

La difficoltà nel compiere questo salto consiste, tra le altre cose, nel nostro forte legame con ciò che possiamo toccare, che costituisce la nostra esperienza quotidiana. Siamo fatti di atomi e immersi in un mondo fatto di atomi.

Quando introduciamo il fattore esperienziale nell’equazione gli atomi non sono più sufficienti a garantire un livello di soddisfazione adeguato.

Non solo dal punto di vista funzionale, per così dire, ma anche per una questione economica. È qui che entrano in gioco i bit.

Un bit è la particella elementare dell’informazione, come l’atomo lo è della materia.

I bit permettono di integrare con altri aspetti più intellettivi l’esperienza superandone i limiti fisici.

Attraverso di essi l’utente può iniziare l’esperienza anche senza trovarsi nel luogo e nel momento in cui questa si svolgerà, può continuare a fruirne oltre la sua conclusione e può condividerla con altri senza rinunciare a nulla.

I bit hanno un costo di gestione virtualmente nullo rispetto agli atomi.

Mentre spedire una bobina cinematografica ha un costo rilevante, l’invio del file con lo stesso contenuto ha un costo pressochè irrilevante.

Per duplicarla poi è necessario utilizzare i materiale adatti, seguire un processo complesso che richiede dei tempi propri e al termine è necessario non dare per scontato che la qualità sia la stessa. D’altro canto duplicare lo stesso contenuto definito da file non solo non richiede nuove risorse, ma avviene in una frazione di tempo e con una affidabilità fortemente maggiore.

Lo spazio che occupa il magazzino per conservarle ha anch’esso un costo, spesso rilevante. Per contro lo spazio per immagazzinare il file non solo ha già un prezzo di base molto basso, ma che tende a diminuire nel tempo grazie al fatto che la tecnologia è in continua evoluzione.

La trasformazione digitale quindi si realizza nella sapiente commistione tra digitale e reale per creare e prolungare l’esperienza, raggiungere luoghi e persone distanti con costi inferiori.

Ne parliamo nel corso che sarà disponibile a partire dal 14 ottobre dal titolo “Digital Mindset“.